la storia della nostra bambina - parte iii: l’intervento
Ci svegliamo la mattina alle 6 per prendere il treno per Milano e io mi sveglio con una brutta sensazione e sono molto preoccupata. Sento che la bambina, che fino ad adesso mi aveva sempre rassicurato e detto che stava bene, inizia a dirmi di avere bisogno di aiuto, che forse da sola non ce la può fare. Sul treno sono nervosa e irrequieta ma cerco di rilassarmi leggendo il libro “You are the Placebo” di Joe Dispenza e di meditare connettendomi alla bambina ed effettivamente questo mi aiuta molto. Il viaggio passa velocemente ma quando arriviamo alla Mangiagalli all’appuntamento delle 10 il chirurgo non c’è e ci dicono che arriverà alle 14. Di nuovo delusi e sconfortati, ma ormai già più abituati alle attese e all’ambiente ospedaliero, ci facciamo fare la prima ecografia da un medico del suo team, che ci dice che la situazione gli sembra più o meno la stessa dell’altra volta e ci fa intuire che quindi probabilmente non ci sono ancora le condizioni per intervenire. Dobbiamo comunque aspettare l’arrivo del chirurgo per sentire finalmente il suo parere. Mi dicono di non mangiare, nel caso in cui decidano di farmi l’intervento e quindi l’anestesia.
Avendo fatto solo una piccola colazione alle sei di mattina sto già morendo di fame e sono solo le 11. Cerco comunque di reggere fino alle 14 e cerchiamo di rilassarci pensando già al ritorno a casa dopo la visita. Alle 15 il chirurgo non si è ancora visto e io inizio a perdere la pazienza. Assalita dalla fame che mi rende estremamente nervosa e suscettibile in questa attesa estenuante decido di fregarmene e di addentare la pizza che avevo nello zaino. In un minuto me ne divoro una quantità notevole, finchè ovviamente non vengono a chiamarmi perchè il chirurgo è arrivato e mi beccano in flagrante con la pizza ancora in bocca e le mani tutte unte e io che faccio la faccia del mio cane quando viene beccato a fare qualcosa che sa che non avrebbe dovuto.
Finalmente incontriamo il chirurgo fetale e mentre mi fa l’ecografia il mio stomaco gorgoglia di soddisfazione per la pizza tanto agognata. Io mi vergogno un po’ ma a ripensarci la cosa mi fa anche estremamente ridere. Il Dott. Persico ci espone la situazione che inizia a far intuire i primi segnali di sofferenza della bambina: le cisti occupano adesso più di 6X5 cm, che è praticamente tutto il petto di una bambina di 23 settimane. Il cuore e il polmone sano sono praticamente soffocati da questa massa e il diaframma ha iniziato ad invertirsi. Il famoso CVR che non avrebbe dovuto superare 1.6 era ora qualcosa come 3.55. Fino ad arrivare al fluido nella pancia, che loro chiamano ascite, che è ciò che precede l’idrope, che è quello che stavamo scongiurando più di tutto perché nella maggior parte dei casi porta alla morte del feto in utero.
In poche parole secondo lui bisogna fare l’intervento, che è praticamente l’unica speranza che ci rimane in questo momento.
Questo ulteriore cambiamento di scenario in così poco tempo mi manda nel panico. Inizio ad avere dei brutti presentimenti e a tremare. Non ci possono operare il giorno stesso perché ho mangiato e bevuto acqua (di cui non mi avevano detto niente) e credo che alla fine sia stata la nostra salvezza perché quella giornata era già stata troppo lunga e stressante per il mio corpo per essere in grado di sostenere l’intervento. L’idea però di tornare a casa e di aspettare fino a lunedí passando due giorni di attesa infernali mi manda nel panico e per fortuna loro si offrono di operarci il sabato, cioè il giorno successivo.
L’intervento consiste nell’entrare nell’utero attraverso quel piccolo corridoio laterale in cui non c’è la placenta e inserire uno shunt, cioè un drenaggio sulla schiena della bambina, che buchi le cisti e le faccia svuotare dal liquido. Come facilmente immaginabile l’intervento comporta dei rischi, di cui ci informano molto dettagliatamente e per i quali noi dobbiamo firmare. Dopo l’intervento dovrò restare in ospedale qualche giorno per monitorare la situazione ed essere sicuri che non succeda niente.
Ormai siamo pronti ad accettare tutto, anche se qualcuno me lo avesse detto un mese prima non ci avrei mai creduto. Firmiamo tutto e riponiamo le ultime speranze che abbiamo nelle mani del chirurgo, che per fortuna ci è piaciuto e ci ispira molta fiducia.
La sera prima dell’intervento è ovviamente piena di angoscia e ansia. Paura che possa essere l’ultima notte con la mia bambina e che il giorno dopo possa semplicemente non esserci più. Scrivo a tutti i miei amici e alle persone che ci stanno supportando in questo percorso di pregare per noi e di mandarci le loro migliori energie. Mi connetto con la bambina e ci parlo: ci facciamo forza e ci incoraggiamo a vicenda anche se tutte e due abbiamo paura. Per fortuna Ben non dà segni di cedimento e in queste settimane è stato la nostra roccia a cui ci siamo aggrappate ogni volta che ne sentivamo il bisogno. Tutte e tre sappiamo che questo è un momento importante, in cui non possiamo permetterci di mollare ma dobbiamo attingere a tutte le risorse e le forze che ci sono rimaste. Invoco tutto quello in cui credo e chiedo a chiunque mi stia ascoltando di aiutarci. Chiedo al mio corpo e al mio utero di sostenerci e di reagire bene. Lascio andare ogni possibilità di poter controllare in qualche modo la situazione e semplicemente mi abbandono a quello che deve essere, al percorso dell’anima che ha scelto di incarnarsi nella nostra bambina e al suo progetto di vita.
In qualche modo la notte passa e la mattina dopo alle 11, dopo aver comprato qualche cambio di vestiti che non avevo, andiamo all’ospedale. Appena arrivati ci dicono che c’é stata un’emergenza e che l’intervento verrà ritardato a non si sa quado. Ci mettiamo l’anima in pace e aspettiamo. Io cerco di distrarmi leggendo articoli di gossip sulla separazione dei Ferragnez ma si rivelano tutti molto deludenti e poco intrattenenti.
Faccio pratiche di respirazione, prego, medito, ascolto musica e canto. Ho sempre con me tutti i miei amuleti con cui creo un piccolo altare itinerante. Stringo forte tra le mani il corno di capriolo che ho trovato nel bosco durante una cerimonia proprio dopo il mio aborto e che mi accompagnerà anche in sala operatoria, con grande divertimento e sorpresa di tutti i medici. Per fortuna con Ben riusciamo a sdrammatizzare e distrarci e a farci anche qualche risata in quella attesa estenuante e così piena di tensione.
L’ altare nella mia camera di ospedale
Alla fine vengono a prendermi verso le 17 e tutto procede per il meglio. Mi sedano alla perfezione e io mi sento molto calma e fiduciosa. L’intervento dura una quarantina di minuti: io li sento che mi pigiano la pancia per mettere la bambina nella posizione giusta e poi mi dicono che stanno per entrare. Che hanno messo uno shunt ma che hanno deciso di metterne un secondo. Sono voci lontane e io mi sento in un’altra dimensione dove c’e anche la mia bambina e tutto è estremamente sereno e pacifico. Stiamo nuotando o forse volando. A un certo punto interrompono questa atmosfera da sogno per dirmi che l’intervento è finito e sembra andato bene. Girano lo schermo verso di me per farmi vedere l’esito dell’intervento, ma io sono così sedata, confusa e sollevata che vedo tutto sfuocato e non ho idea di cosa sto guardando. Continuo solo a chiedere se la bambina sta bene e il chirurgo mi risponde di si aggiungendo: “Questi feti sono sempre più forti di quello che pensiamo”.
Il giorno dopo mi fanno un’ecografia e l’intervento sembra andato nel migliore dei modi: le cisti si sono svuotate e il cuore della bambina è tornato al suo posto. Solo adesso mi accorgo di quanto fosse piccolo e sacrificato nelle ecografie precedenti. Adesso che la massa si è ritirata sembra almeno due o tre volte più grande. Mi rendo conto di quanto fosse incredibile che quel piccolo cuoricino abbia sempre continuato a battere con tanta forza e determinazione anche in condizioni cosí ostili. Di quanto coraggio ci sia in questa bambina. Ad ogni visita in cui continuavamo a ricevere notizie sempre peggiori e più preoccupanti l’unica frase che ci aveva salvato era sempre stata: “ma il cuore funziona ancora bene” e mentre lo dicevano ne sembravano un po’ sorpresi anche loro. Sapevamo che nonostante tutta la fatica e lo sconforto quello era quello che contava e che finché quel cuore continuava a battere non potevamo arrenderci. Quel piccolo cuore che non ha mai mollato è stato il motore che ha alimentato tutto, che ci ha dato la forza e la speranza anche quando sembrava veramente impossibile trovarla.
La bambina c’è ancora e sta decisamente meglio di prima. Continuano a ripeterci però che la strada è ancora lunga e non possiamo rilassarci troppo presto. Dobbiamo sperare che non ci sia nessuna reazione all’intervento e che i drenaggi reggano, non si spostino e continuino a funzionare. Dopo due giorni, visto che tutto va bene, mi dimettono e torniamo a casa estremamente sollevati ma anche molto provati fisicamente ed emotivamente dall'intensità di questa esperienza.
L’ultima parte della nostra storia (per ora) continua qua.